Lo sapevi?

Dino Campana

 Dino Campana. Catene del corpo e della mente

Il Castello di Novara non custodisce solo storie di casate, eserciti e conquiste, ma anche le storie umane troppo umane di tante persone che a partire dal 1803 lo conobbero e vissero nella sua seconda veste, quella di carcere. Tra queste la malinconica ed errabonda vicenda del poeta Dino Campana, che ironia della sorte, in gioventù desiderò ardentemente la carriera militare, salvo non superare gli esami per divenire ufficiale. Fu così che la sua passione e la sua irrequietezza mentale trovarono a tratti sfogo nella poesia e nella filosofia, ma anche  in continui viaggi e spostamenti nomadici, che le autorità dell’epoca non sempre seppero ricondurre alla sofferenza psichica.

Questo il motivo per cui il nostro poeta, tra un manicomio e l’altro, incontra sul suo cammino anche il Castello di Novara. Nel 1917 il poeta maledetto – se ci è concesso di rubare l’epiteto del suo alter ego francese Rimbaud – viene incarcerato : siamo in piena guerra e Dino Campana viene trovato senza documenti ad errare nella campagna novarese. Nessuno comprende che è la sofferenza psicologica a indurlo a tali disperati vagabondaggi, senza badare a dettagli quali le carte di riconoscimento dell’epoca.

La sua fortuna, che a breve si tramuterà anch’essa in contrizione, fu che in quegli stessi anni si era legato in una struggente storia d’amore con la scrittrice Sibilla Aleramo, unica a premurarsi di assumere un avvocato per fargli ottenere la libertà e la possibilità di tornare a casa, se una casa questo poeta ha mai avuto.

Una libertà, tuttavia, provvisoria e precaria quanto l’amore: nel gennaio del 1918 Dino è nuovamente ricoverato in manicomio e qui morirà nel 1932 senza più ricevere né una parola né una visita dall’amata Sibilla. I suoi familiari lo avevano abbandonato ben prima.

Lasciamo ai suoi versi il ricordo del commiato da una Novara settembrina – quasi una premonizione di altra sofferenza. Dino Campana varca la soglia del castello per andare incontro agli ultimi 14 anni di un male di vivere insopprimibile. Le sue prigioni…

Il Monte Rosa
è un grande macigno;
ci corrono le vette a destra e a sinistra,
all’infinito, come negli occhi del prigioniero.
È grigio il cielo,
laggiù si stendono al piano, infinitamente,
i pennacchi tremuli delle betulle,
come un tabernacolo gotico.
Il cielo è pieno di picchi bianchi che corrono,
ma la torre di San Gaudenzio
instaura un pantheon aereo
di archi dorici di marmo.
Sugli spalti una solitaria
cerca l’amore.
L’aspro vino mi ha riconfortato
e dal baluardo un azzurro
sconfinato
posa sulle betulle,
pantheon aereo di colonne,
sopra un giardino di Lombardia.
Settembre solare denso,
dove le betulle emergono nel piano.
Lontano, il macigno bianco”. 

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