Lo sapevi?
Dentro il cantiere ducale: una storia di mattoni, lettere e ambizioni
Novara, 1468–1474
Immaginate di passeggiare per le vie polverose di una Novara tardo medievale, tra il profumo di calce fresca e l’eco lontano di scalpelli sulle pietre. Il Castello non è ancora quello che conosciamo oggi: è un grande cantiere aperto, il cuore pulsante di una visione ducale.
Siamo nel 1468. Galeazzo Maria Sforza, giovane e carismatico figlio di Francesco Sforza, ha appena preso le redini del Ducato di Milano. È ambizioso, impaziente, e intuisce che Novara deve diventare un baluardo moderno, degno della sua nuova corte.
E così, tutto ha inizio con un ordine secco: demolire la vecchia cittadella. Il suo materiale, pietre, legname e ferro, sarà riutilizzato. In una lettera del 5 marzo 1469, il referendario novarese Jacopo de Pegiis spiega chiaramente il progetto: disfarsi del passato per fortificare la rocca, il vero centro difensivo del nuovo potere ducale.
Ma la realtà, come spesso accade nei cantieri di ogni epoca, è più complessa delle intenzioni.
Si progetta una fornace nei pressi dell’Ortello, a metà strada tra il castello e il palazzo vescovile, per cuocere mattoni e calce necessari al grande restauro. Tuttavia, i fondi sono scarsi, il tempo stringe e la burocrazia ducale, già allora, rallenta i lavori.
Nel 1470, un evento simbolico: Galeazzo Maria concede la signoria di Novara alla moglie, Bona di Savoia, rafforzando così il legame tra la città e la corte. Ma sul fronte dei lavori il cantiere langue, almeno fino all’arrivo, nel 1471, di un uomo destinato a fare la differenza.
Il suo nome è Bartolomeo Gadio, architetto militare, uomo di precisione e visione. Gadio passa al setaccio le carte tecniche redatte dal precedente ingegnere, Maffeo da Como, e ricalcola tutto. Serviranno tre milioni e duecentomila mattoni. Il costo? Ben 33.500 lire imperiali. Di cui:
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32.000 lire per i mattoni (a 10 lire ogni mille)
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6.000 lire per scavi e rinforzi ai muri della scarpata
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1.000 lire per demolire definitivamente la cittadella
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500 lire per corde, chiodi, e stanghe
Una cifra enorme. Talmente elevata da gettare nel silenzio per un anno e mezzo tutta la corte milanese. Il Castello di Novara? Improvvisamente, non se ne parla più.
Finché, nel gennaio 1473, Gadio perde la pazienza. Scrive a Cicco Simonetta, il potente segretario ducale, denunciando il comportamento del referendario novarese che dichiara di non poter iniziare nulla “senza dinari”. Gadio, con lo spirito pratico del costruttore, propone una soluzione: affidare la direzione del cantiere a un uomo di fiducia, Francesco da Trevi, castellano appena nominato da Bona di Savoia.
E da lì, finalmente, si riparte.
Il 27 ottobre 1474, da Trevi scrive al duca una lunga e appassionata lettera, conservata ancora oggi, in cui racconta nei dettagli l’avanzamento del cantiere:
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Il muro del Castello è stato rifatto da cima a fondo
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Sono in costruzione torri, merli, beccatelli
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Il ponte levatoio è stato abbassato e stanno posando i battiponti
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Le squadre lavorano giorno e notte, tra pietra, mattoni e malta
Tutto viene annotato con precisione, compreso l’uso della creta per fabbricare quadrelli e sabbione da cantiere. È una cronaca tecnica, ma anche umana, di fatica e ingegno, che ci restituisce un frammento vivo di storia.
Il Castello di Novara, che oggi ammiriamo, è anche frutto di questa stagione febbrile, fatta di visioni ambiziose, lettere accorate e milioni di mattoni posati uno a uno.
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